L’esperanto: lingua pianificata, lingua letteraria

Estratto da

Un secolo di traduzioni letterarie dall’italiano in esperanto – (1890 – 1990)

di Carlo Minnaja.

  1. L’esperanto: lingua pianificata, lingua letteraria

La prima grammatica della Lingua Internazionale oggi conosciuta sotto il nome di “esperanto” esce a Varsavia il 26 luglio 1887[1], presso la stamperia Kelter. È in lingua russa, e la prima pagina riporta il titolo МЕЖДУНАРОДНЫЙ ЯЗЫКБ e lo pseudonimo dell’autore Дръ ЗСПЕРАНТО. Già sulla copertina si leggono le prime parole nella nuova lingua “por Rus,o,j” (per i russi), e nello stesso anno seguono le versioni in polacco (“por Pol,o,j”), in francese (“por Franc,o,j”) e in tedesco (“por German,o,j”)[2]. La copertina indica anche “Prefazione e manuale completo” e riporta il motto “Perché una lingua sia mondiale non basta chiamarla così”.

Sotto lo pseudonimo di Dr. Esperanto (che nella nuova Lingua Internazionale significa “il dottore che spera”) si cela l’oculista Lazzaro Zamenhof[3], un ebreo polacco nato nel 1859 a Bjałystok, governatorato di Grodno, regione della Polonia allora sotto l’impero russo. Suo padre, Mordechai cristianizzato in Markus, era un professore di lingue, autore di testi scolastici di larga diffusione, studioso dei testi biblici, una delle poche persone appartenenti alla ristretta intelligencija ebraica di cui il regime zarista si fidava, tanto da assumerlo anche nell’ufficio censura della stampa[4]; le lingue della famiglia Zamenhof erano il russo usato dal padre e l’yiddish usato dalla madre; la comunità ebraica circostante parlava yiddish, la lingua dell’istruzione scolastica, dei militari di stanza e della burocrazia era il russo, la borghesia parlava polacco, contadini e commercianti parlavano tedesco, e c’era una minoranza lituana. Il giovane Lazzaro, cresciuto in un ambiente multilingue, fu uno studente modello, buon conoscitore delle lingue classiche, del tedesco e dell’ebraico della Bibbia; da persona di cultura era anche un ottimo conoscitore del francese scritto e si era avvicinato all’inglese. Cresciuto in una regione dove convivevano, tra forti contrasti, etnie parlanti lingue diverse, fin da bambino aveva avuto l’idea di creare una lingua internazionale per facilitare la comprensione tra i popoli[5]. Un suo progetto di lingua aveva già corpo fin da quando il giovane era al ginnasio[6]; sperimentazioni e modifiche successive portarono poi, nel 1887, alla pubblicazione del citato primo libro, costituito da una prefazione, tre saggi che illustrano il problema della lingua internazionale e la soluzione che l’autore propone, una dichiarazione di intenzione di studiare la lingua se almeno altri dieci milioni di persone fanno la stessa promessa, una grammatica essenziale di 16 regole, un vocabolario di 917 radici e alcuni brani letterari già nella nuova lingua.

Sono proprio questi ultimi che ci interessano maggiormente. Zamenhof è cosciente che la letteratura è l’anima di una lingua, e che per dare credito ad un progetto di lingua internazionale nato a tavolino è necessario convincere i lettori dell’opuscolo che in tale lingua si possono esprimere tutte le sfumature proprie delle letterature di tutti i popoli. I brani che compaiono sono, se tralasciamo una lettera di convenevoli che serve da modello, due poesie originali, Mia penso (Il mio pensiero) e Ho mia kor’ (O mio cuore), la traduzione del Padre nostro, la traduzione dei primi dieci versetti della Genesi e la traduzione da Heine En sonĝo princinon mi vidis (Mir träumte von einem Königskind). Perché Zamenhof ha scelto proprio questi brani?

Le poesie originali parlano della sua emozione nell’uscire in pubblico con una lingua internazionale avendo sacrificato tutta la giovinezza allo studio per perseguire quell’ideale. I versi presentano già licenze poetiche con i sostantivi a finale tronca[7], le rime sono semplici, ma si intravedono chiaramente le potenzialità letterarie della lingua. Pur avendo le parole in esperanto l’accento sempre regolarmente sulla penultima vocale, e quindi offrendo naturalmente un ritmo di trochei e amfibrachi con le parole generalmente bisillabe e trisillabe, una di queste poesie presenta, con una sagace alternanza di monosillabi e di parole troncate, un incalzante ritmo giambico[8]. Con le traduzioni lo Zamenhof vuole dare subito un senso di universalità, e quindi coglie i testi più cari alla religione cristiana e a quella ebraica, che coprono la quasi totalità del mondo che a quell’epoca veniva considerato “civile”. Riguardo alla traduzione da Heine, lo Zamenhof evidentemente ritiene che una traduzione dal tedesco collochi la nuova lingua in un ambiente più eurocentrico che non una traduzione dal russo, idioma con il quale egli sarebbe ben più intimo. Inoltre Heine era ebreo, era popolare anche in Francia, avendo sposato una francese ed essendosi trasferito a Parigi. La poesia in questione, numerata col XLI nella raccolta Lyrisches Intermezzo apparsa nel 1823, non è tra le più famose del poeta tedesco: parla di un amore impossibile vissuto in un sogno romantico. Vogliamo vedere anche qui un’allusione al sogno di una lingua universale?

Il Secondo libro[9] apparirà nel 1888, meno di un anno dopo, e sarà totalmente nella nuova lingua: un piccolo popolo esperantista si era già formato, molti interessati avevano scritto al Dr. Esperanto indicando la loro disponibilità ad imparare la lingua se altri lo avessero fatto, o dichiarando di averla già imparata rapidamente. C’è quindi già un pubblico di cultori della lingua internazionale, ai quali è naturale rivolgersi nella lingua stessa. Il Secondo libro contiene un commento a proposte di riforma della lingua pervenute all’autore, esercizi e frasi, e ancora brani letterari: una favola di Andersen, il Gaudeamus igitur e ancora una poesia di Heine[10], tradotta tuttavia non più dallo Zamenhof, ma da un poeta, giornalista e saggista polacco, l’ebreo Leo Belmont[11]. Ci sono anche alcuni proverbi, altra colonna portante di una qualsiasi civiltà; lo Zamenhof vuole creare attraverso la traduzione di proverbi una tradizione linguistica, e a questa raccolta di pillole di saggezza resterà sempre affezionato[12].

Ancora letteratura dunque, e ancora brani di autori internazionalmente noti. Andersen viene tradotto non dall’originale (Zamenhof non conosceva il danese), ma dalla versione in tedesco[13]. Ancora un riferimento centro-europeo, nonostante il fatto che i primi cultori, che hanno comperato la prima grammatica in libera vendita in librerie e stazioni, fossero principalmente polacchi e russi, spesso di etnia ebraica. Ma presto si aggiunsero numerosi tedeschi, a volte già adepti di una lingua internazionale, il Volapük, che aveva avuto un rapido successo in quegli anni, seguito da un declino ancor più rapido, e che aveva già dimostrato la sua carenza fondamentale: la difficoltà del suo lessico[14]. Questo proveniva generalmente dalle lingue germaniche, ma le radici erano fortemente deformate fino ad essere irriconoscibili; veniva quindi meno uno degli elementi fondamentali per una lingua internazionale: il potervi trovare, almeno per i popoli europei, un discreto numero di radici della propria lingua[15].

Con il 1889 la “Lingua Internazionale del dr. Esperanto” comincia ad essere chiamata semplicemente con lo pseudonimo del suo iniziatore, e gli adepti si chiameranno esperantisti[16]. I centri di diffusione sono a Varsavia, dove vivono Zamenhof e Belmont, a Odessa, a Norimberga, dove inizia le pubblicazioni il primo giornale in esperanto, La Esperantisto, a Uppsala. Lo spostamento dell’asse verso l’Europa occidentale si ha negli anni immediatamente successivi, con la diffusione dell’esperanto in Francia, dapprima nella regione di Albi e poi a Parigi, e proprio a Parigi imparerà e si appassionerà alla lingua il primo esperantista italiano, il dott. Daniele Marignoni[17]. Il Marignoni è un agiato notaio che risiede a Crema, discendente da famiglie dell’alta nobiltà cremasca, redattore di giornali cattolici, conoscitore di varie lingue, già adepto dell’idea della necessità di una lingua internazionale. È un eclettico, con interessi per la stenografia, su cui scriverà un libro. Viaggia molto e a Parigi trova il primo libro di esperanto nella versione francese; impara la lingua e, a sua volta, nella primavera del 1890, pubblica la prima grammatica in italiano dal titolo: Esperanto, ossia la più pratica delle lingue internazionali[18]. È la trentacinquesima opera di esperanto che esce, a meno di tre anni pieni dall’uscita del Primo libro, del quale sono già uscite le traduzioni in inglese, ebraico, svedese, lettone, danese, bulgaro, eventualmente adattate per le varie lingue. Subito dopo il manuale in italiano ne usciranno in spagnolo, in ceco, in lituano.

Questo primo manuale del Marignoni raccoglie già qualcosa di significativo. Ci sono brevi cose di Zamenhof e dei primi esperantisti, alcuni proverbi e altri piccoli brani ripresi dalla prima rivista in esperanto, La Esperantisto, che aveva una rubrica letteraria in ogni numero[19]; ma soprattutto ci sono le prime traduzioni in assoluto dall’italiano in esperanto. Si tratta solo di brevissimi frammenti da Tommaseo, Metastasio, Giusti. La grammatica non fruisce subito di una buona accoglienza: la rivista letteraria La Scintilla, edita a Venezia, nel suo numero del 18 maggio 1890, p. 76, pubblica una recensione del libro a firma S., che deride come “illusione” l’idea di una lingua universale, giacché “l’idioma non è cosa convenzionale e che si possa stabilire o creare a talento, né da un uomo, né da un’accolta di dotti”. Altri giornali invece, nel corso di questi primi anni, citano l’esperanto con interesse[20].

Il Marignoni resta il solo esperantista in Italia per alcuni anni; nuovi adepti e gruppi nasceranno circa un decennio dopo. Egli stesso si rammarica, in una cartolina del 1904, di non avere dalle sue parti persone con cui praticare la lingua. Ma sue traduzioni appaiono in sede internazionale nel 1893, quando esce la prima antologia.


[1] È la data del biglietto di permesso di far uscire in pubblico il libro già stampato; precedentemente (2 giugno) era stato concesso il permesso di stampa.

[2] Le virgole che compaiono all’interno di una parola danno alla lingua scritta un aspetto non comune; servivano per segmentare il vocabolo nella sua radice e nelle desinenze, la -o per il sostantivo e la -j per il plurale. Tale segmentazione, usata nel primo manuale dedicato al principiante assoluto, fu subito abbandonata nelle opere successive data l’immediata riconoscibilità della morfologia delle parole, che in esperanto è molto regolare.

[3] Il nome Lejzer è quello che compare nel registro delle nascite della popolazione ebraica di Bjałystok: si tratta della trascrizione russa del nome ebraico El’azar. Sono registrati anche i nomi dei genitori e del sacerdote che ha effettuato la circoncisione (copia fotografica dell’atto di nascita si trova in Memorlibro pri la Zamenhof-Jaro (Libro-ricordo dell’anno di Zamenhof, Universala Esperanto-Asocio, Londra, 1960). L’abitudine era poi di aggiungere un altro nome cristiano con la stessa iniziale, e lo Zamenhof fu chiamato con il nome Ludvik, con le varianti Ludwik e Ludovik, familiarmente col diminutivo Lutek. Con i primi anni del Novecento inizierà ad usare il doppio nome Lazzaro Ludovico e a firmarsi D-ro L. L. Zamenhof, probabilmente per non essere confuso con il fratello Leone, di sedici anni più giovane, dottore in farmacia, che aveva iniziato in quegli anni a pubblicare in esperanto e che si firmava anch’egli “D-ro L. Zamenhof”.

[4] Avrà poi delle difficoltà per aver permesso una pubblicazione non gradita al regime zarista.

[5] Una sua lettera in russo, poi tradotta in esperanto e ripetutamente pubblicata, racconta di un episodio di violenza da parte di soldati russi su civili polacchi la cui motivazione apparve allo Zamehof bambino causata soltanto dall’incomprensione dovuta a diversità di lingua; e lo Zamenhof adulto dichiara che da allora ebbe il sogno di creare una lingua attraverso la quale tutti si potessero intendere su un piede di parità. Successivi studi ed interpretazioni meno agiografiche, particolarmente riferentisi al periodo in cui lo Zamenhof studente fu un attivista del movimento sionista favorevole al ritorno del popolo ebraico in Palestina, vedono invece nella creazione della lingua internazionale lo scopo di far comunicare tra loro gli ebrei sparsi nel mondo, al fine di ricostituirne un’unità di popolo. La comunità esperantista si impadronirà poi della lingua ben al di là delle intenzioni del suo autore, e ne creerà uno strumento legato ad una ideologia di uguaglianza linguistica nella comunicazione internazionale, ben lontana da un qualsiasi nazionalismo, incluso quello ebraico.

[6] Le non poche biografie di Zamenhof riportano tutte un episodio simbolo, ripreso da scritti dello stesso Zamenhof: il giovane riunisce alcuni compagni di scuola, e davanti a una torta tutti cantano una canzone di quattro versi che inneggia alla caduta delle inimicizie tra le nazioni.

[7] Tale licenza è addirittura codificata nelle sedici regole della grammatica, il che prova la grande importanza che lo Zamenhof attribuiva alla poesia fin dai primi passi della nuova lingua.

[8] Zamenhof scrisse soltanto nove poesie originali e tutte, salvo una, riferentisi all’ideologia esperantista; tuttavia, nonostante il tema, si può notare più volte un sincero afflato poetico.

[9] L’aver chiamato questa pubblicazione Dua libro (Secondo libro) rientrava nell’idea di Zamenhof di numerare progressivamente i libri che uscivano, e quindi la prima opera del 1887 fu successivamente chiamata, a posteriori, Unua libro (Primo libro). La numerazione continuò per alcuni anni, fin quando la grande abbondanza di pubblicazioni in vari luoghi rese impossibile il controllo.

[10] Si tratta di Lieb Liebchen, legs Händchen aufs Herze mein, messa successivamente in musica da Schumann.

[11] Pseudonimo di Leopold Blumenthal (1865 – 1940). La traduzione citata è firmata con le iniziali K.D., sigla mai chiarita; in pubblicazioni successive che riprendono la stessa poesia il nome del traduttore appare invece esplicitamente.

[12] Il padre, Markus, aveva in mente una fraseologia russa-polacca-tedesca-francese che raccogliesse proverbi e modi di dire di tutte le provenienze, e ne cominciò la pubblicazione in dispense nel 1905; a questa raccolta lo Zamenhof propose di aggiungere le massime in esperanto. Per la morte di Markus le pubblicazioni si interruppero, e poi uscì unicamente la parte in esperanto nel 1910.

[13] Zamenhof tradurrà l’intera raccolta delle Fiabe di Andersen, che uscirà dopo la sua morte: i primi tre volumi tra il 1923 e il 1932 e il quarto e ultimo soltanto nel 1963.

[14] L’ideatore del Volapük fu l’abate tedesco Johann Martin Schleyer (1831-1912), che lo pubblicò nel 1879. Godette di successo per circa 10 anni, con numerosi corsi di apprendimento e club di adepti. Nel 1890 iniziò un declino rapidissimo, tuttavia ancora adesso esistono gruppi di studiosi e una rivista; una ricerca con Google dà per Volapük 1.770.000 citazioni (per confronto, la voce Esperanto ne dà 109 milioni).

[15] Il lessico era basato principalmente su quello inglese, la struttura grammaticale più su quella tedesca. Il nome stesso deriva dai vocaboli inglesi world e speak: Volapük = lingua del mondo. Vi furono tre congressi, in cui principalmente si parlò in tedesco.

[16] La terminologia moderna distinguerà poi, circa un secolo dopo, gli esperantofoni, cioè i semplici utenti della lingua per qualsiasi scopo, dagli esperantisti, termine a cui si attribuisce anche un significato ideologico di divulgatori della lingua e di ideali di pace e di uguaglianza tra i popoli. Gli esperantisti tra loro si sono sempre chiamati samideanoj (plurale di samideano = sam-ide-an-o = membro della stessa idea); un calco di tale termine è usato dagli esperantisti anche in italiano (samideano, con il suo plurale samideani) e compare per la prima volta nel dizionario di Bruno Migliorini. Una ricerca attuale su Google riporta tale termine usato anche da organismi non legati all’esperanto, ad esempio in giornali che parlano di manifestazioni di esperantisti.

[17] Del Marignoni si parla brevemente in: E. Migliorini, I pionieri dell’esperanto in Italia, s.i.p., Roma, 1982, ma studi più accurati sono iniziati soltanto nella primavera del 2005, quando per scadenza della concessione cimiteriale i resti mortali avrebbero dovuto essere collocati in un ossario comune. Questo fatto dette l’occasione al movimento esperantista di ricostruire dati anagrafici ed attività del Marignoni, che si scoprì essere stato un cittadino illustre di Crema, autore di studi e pubblicistica varia, in particolare nel campo della lingua internazionale e della stenografia. A seguito di tali risultanze l’amministrazione comunale fece traslare i resti del Marignoni nel monumento della personalità cittadine, e una lapide del Famedio lo ricorda come colui che “introdusse l’Esperanto in Italia”. In quella occasione (11 giugno 2005) vi fu una celebrazione ufficiale con la partecipazione del sindaco di Crema, on. Claudio Ceravolo. Al Marignoni in quanto primo esperantista italiano era stata intitolata, nel 1956, una scuola media superiore di Milano, l’Istituto Professionale per il Commercio di via Melzi d’Eril. Oggi tale scuola si è fusa con altro istituto e si chiama Istituto Professionale per il Commercio ed il Turismo “D. Marignoni – M. Polo”. Le conoscenze aggiornate sul Marignoni si trovano adesso riassunte in: C. Sarandrea, Origini del movimento esperantista a Roma (1905-1935), Roma Esperanto Centro “Luigi e Carolina Minnaja”, Roma, 2005.

[18] Edizione: Tipografia Carlo Cazzamalli, Crema, 1890. Si tratta di un opuscoletto di 75 pagine, 19×13 cm.; costo: 60 cent.

[19] La Esperantisto esce a Norimberga il 1° sett. 1889, annunciando una cadenza mensile. La maggior parte degli abbonamenti è in Russia, per cui la rivista ha un tracollo quando la censura ne impedisce l’entrata in quel paese, perché riportava la traduzione di Saggezza e fede di Tolstoj. Le pubblicazioni proseguono ancora con grande difficoltà fino a cessare definitivamente nel 1895. Nascerà subito in Svezia una nuova rivista, Lingvo Internacia (Lingua Internazionale), che durerà dal 1895 fino alla guerra.

[20] In C. Sarandrea, Op. cit., troviamo menzionati Il Paese, la Gazzetta di Torino, Il Secolo, Il popolo romano.

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